TRAVERTINO PER UN MUSEO
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- Lunedì, 16 Giugno 2008 23:09
Los Angeles sta divenendo un vero e proprio testimonial del travertino romano. Il primo passo di notevole spessore in questo senso è il Getty Center ideato dieci anni or sono da Richard Meier. Eretto sul luogo collinoso che dalle montagne di Santa Monica guarda verso la zona residenziale di Brentwood, si sviluppa lungo due crinali del terreno estendendosi su di un’area di 110 acri. Il “lapis tiburtinus” che lo riveste è di colore uniforme, a grana fine, lavorato in modo inconsueto per ottenere una superficie bugnata.
È composto in totale di 93 mila metri quadrati di blocchetti e si è guadagnato nel tempo il titolo non trascurabile di “nuova Acropoli”. Ora la scelta si ripete con l’inaugurazione dell’ultimo padiglione del Lacma, ossia il Los Angeles Country Museum of Art. Progettato dall’architetto ligure Renzo Piano, è anch’esso rivestito di materiale estratto dal bacino di Tivoli e poi lavorato da Campolonghi a Montignoso (Massa Carrara). L’opera appena conclusa costituisce tra l’altro il frutto d’un iter partito da lontano. Già nel 2001 l’olandese Rem Koolhaus firma un masterplan che prevede di demolire quasi tutti gli edifici scomodi dell’area. Il progetto da 300 milioni di dollari non supera però il referendum indetto dal comune. Entra allora in scena Broad, consigliere fiduciario del museo e collezionista di arte moderna e contemporanea con circa 2 mila opere. È lui a coinvolgere e convincere il progettista italiano, di cui è grande ammiratore. Per i lavori sborsa 50 milioni di dollari per la costruzione del Bcam, più 10 per l’acquisizione di nuove opere. Il resto viene coperto da altri sponsor e dall’amministrazione cittadina.
La scelta del tipo di materiale, caro al Bernini ed a tutta una schiera di artisti del passato, è dovuta anche alla necessità di creare una connessione con l’edificio West. «Il quale - spiega l’architetto - purtroppo è costruito con una pietra bruttissima, mentre il travertino è grezzo, cangiante, una pietra viva». Il direttore dell’istituto Michael Govan, sottolinea con soddisfazione la versatilità del museo: «Al primo livello si possono esporre le opere di grandi dimensioni. Al piano di mezzo, con illuminazione artificiale, video arte e progetti. All’ultimo piano, con la bella luce naturale, le opere più classiche». Il simbolo di questa idea di rotazione è l’ascensore, una vera e propria stanza in movimento. Misura 6 metri per 3, può portare fino a 40 persone e trasportare opere d’arte. Insieme con la scala mobile esteriore, dipinta di rosso squillante e battezzata “spider”, esprime la natura dinamica della struttura.
Il museo risulta concepito anche in stretta collaborazione con altri artisti. Robert Irwin ha piantato 400 palme “washingtonian” (alte fino a 25 metri) che dondolano al vento, dopo averle cercate una per una. Sulla facciata sud freme il tocco di John Baldessarri: enormi teli blu in tessuto da vela, su cui è riprodotta la sua mano che con un cellulare fotografa le piante.
Chris Burden ha installato 200 lampioni vintage della Los Angeles storica, che ha accuratamente restaurato. Jeff Koons, che espone un’opera nell’Entrance Pavillon, ha disegnato una grande installazione in cui un vagone ferroviario del 1940 sta appeso a testa in giù ad un argano gigante. L’adesione di Piano alla cultura californiana, un po’ effimera ma attenta all’habitat, ha ispirato anche una sua creazione a San Francisco, dove ha realizzato l’ampliamento della California Academy of Sciences, l’edificio più ecologico degli Stati Uniti. Il nuovo Planetario, la Rainforest Exhibit e l’ingresso dello Steinhart Aquarium sono ricoperti da un tetto a superficie ondulata, sul quale si sono piantati 4 milioni di graminacee. È insomma una copertura che nasce, muore e risorge, secondo i ritmi eterni della natura.